Esperimenti di Pittura Cieca

 

 

« La difficoltà dell‘arte sta anche nel fatto che in genere gli artisti si sforzano di esprimere esperienze interiori straordinarie , si sforzano di vivere emozioni speciali , sperperando nello sforzo tutta la loro esteticità inconsapevole e confondendola in un groviglio caotico di emozioni manierate .
Un compito insignificante e ripetitivo potrebbe invece mostrarsi più adatto a misurare le variabili inconsapevoli
che intervengono nell‘ esecuzione.»

Sergio Lombardo 1979

 

 

Gli Esperimenti di Pittura Cieca nascono nel 1982, allora le correnti artistiche più accreditate erano figurative: il “neo-espressionismo“ e la cosiddetta “pittura colta“; io ero studente all‘Accademia delle Belle Arti di Roma, ma non mi riconoscevo in un‘arte carica artificialmente di contenuti emozionali. Leggendo la Rivista di Psicologia dell‘Arte rimasi affascinato da un articolo in cui Sergio Lombardo parlando dei suoi monocromi degli anni ‘60, rilevava l‘esteticità e l‘inevitabilità dell‘errore all‘interno di un compito tutt‘altro che lirico .
Nei primi lavori di Pittura Cieca mi proponevo, lavorando ad occhi bendati, di annerire completamente l‘intera superficie del quadro in un tempo dato, superfice che era delimitata dal telaio posto sopra la parte anteriore della tela. Il compito era volutamente inespressivo, prevedendo anticipatamente addirittura il tempo di esecuzione dell‘opera. Le deviazioni dal compito (spazi non campiti, ma anche ipercoperti) sono espressioni involontarie e derivano non solo dallo stato di deprivazione sensoriale, ma soprattutto da fattori psichici ed emozionali; questo è risultato ancora più evidente quando successivamente ho affidato ad altri la realizzazione dell‘esperimento. Le persone coinvolte erano state contattate casualmente, e per me le loro esecuzioni sono solo un esempio tra tutte quelle possibili. La decisione di delegare ad altri la realizzazione dei miei lavori deriva dalla convinzione che l‘artista non deve esibire abilità particolari né esprimere emozioni eccezionali, ma ideare uno stimolo in grado di coinvolgere il pubblico sul piano della realtà: lo “spettatore“ non deve immergersi in mondi virtuali o immedesimarsi nei contenuti dell‘autore ma esprimere reazioni autentiche e
differenti da persona a persona; l‘opera in questo caso consisterà in un evento nel quale ogni “fruitore“ manifesta contenuti profondi e personali.
Nei primi lavori realizzati “alla cieca“ risulta evidente, nel progetto, un riferimento a quel filone artistico (da Kazimir Malevitch al minimalismo degli anni `60) che riduce il linguaggio pittorico ai suoi elementi essenziali.
Nel mio lavoro però alla riduzione degli elementi linguistici si aggiunge l‘impossibilità, dovuta alla deprivazione sensoriale, di avere piena coscienza del proprio agire durante la realizzazione dell‘opera. L‘esecuzione non è vista però come evento magico ispirato da forze occulte; a priori viene stabilito un compito esecutivo ben preciso, adatto a misurare le deviazioni spontanee, non prevedibili e irripetibili.
L‘ involontarietà e l‘imprevedibilità fanno pensare a quei movimenti artistici che hanno posto il processo aleatorio al centro della loro poetica: un riferimento pertinente sono i Ritratti visionari (1917) realizzati in penombra dal dadaista Hans Richter.
Nel mio lavoro però la riduzione al minimo degli elementi che costituiscono l‘opera consente, a chi conosce il progetto e il metodo utilizzato, di analizzare i risultati dell‘ esecuzione; da questi si evince che l‘immagine finale non è il prodotto realizzato da un‘entità inconoscibile, il caso, ma espressione inconsapevole dell‘esecutore. Nei lavori successivi, gli Esperimenti con Linee, l‘esecutore doveva “coprire“ la superficie con una griglia di linee orizzontali e verticali poste a una distanza di due centimetri, anche in questo caso l‘esecutore poteva orientarsi toccando i bordi della superficie da coprire. Mentre i monocromi dei primi esperimenti sembrano derivare da una scelta iconoclasta, quì il risultato è un‘ immagine che presenta una struttura molto evidente.
L‘interesse per la perdita di orientamento durante l‘esecuzione inizia a mostrarsi più chiaramente in questi lavori, e sarà ulteriormente sviluppato negli Esperimenti con cerchi del 1984. Nel Gennaio di quell‘ anno durante l‘inaugurazione di una mostra, realizzai davanti al pubblico un lavoro nel quale dovevo riempire ad occhi bendati l‘interno di un cerchio che misurava 100 centimetri di diametro. Il cerchio era disegnato al centro di un foglio quadrato (280 centimetri di lato), che era stato collocato sul pavimento della galleria. Dovevo eseguire l‘esperimento rimanendo all‘interno del cerchio ma, contrariamente ai lavori precedenti, il perimetro della figura da riempire era solo disegnato, quindi non era possibile orientarsi utilizzando il tatto.
In questo caso lo spazio a disposizione era molto superiore all‘area da coprire effettivamente, si moltiplicavano quindi le possibilità di perdere l‘orientamento, inoltre dovevo lavorare per un tempo prestabilito ma a me ignoto: il tempo a disposizione era stato estratto a sorte tra altri sei, mentre io ero bendato. Il progetto prevedeva quindi la possibilità che, durante l‘esperimento, la mia
concezione dello spazio e del tempo fosse assolutamente soggettiva. Nella stessa mostra era possibile confrontare alcuni lavori dello stesso tipo, ma di dimensioni ridotte, realizzati da altre persone.
L‘anno successivo a forme geometriche elementari e simmetriche, ho sostituito figure più complesse create con metodi aleatori. Questo cambiamento aveva un duplice scopo: eliminare la scelta della forma da coprire, per escludere al massimo la mia soggettività, e insieme rendere maggiormente individuabili le trasformazioni dello stimolo – dovute ad errori di orientamento – ma anche a “creazioni“ involontarie della memoria.