ESPERIMENTI DI PITTURA CIECA CON CERCHI *

*Giovanni Di Stefano, Centro Studi sui problemi dell’ Arte JARTRAKOR, Roma. Comunicazione letta il 13 giugno 2000 al convegno Relazioni scientifiche del laboratorio sperimentale di Psicologia dell’ Arte, Galleria Comunale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma

Desidero iniziare questo discorso con una citazione, non solo perché ritengo sia utile a definire sinteticamente gli obbiettivi del mio lavoro, ma anche perché questo brano è stato uno degli stimoli che mi hanno portato a progettare i miei Esperimenti di Pittura Cieca:
La difficoltà dell’arte sta anche nel fatto che in genere gli artisti si sforzano di esprimere esperienze interiori straordinarie, si sforzano di vivere emozioni speciali, sperperando nello sforzo tutta la loro esteticità inconsapevole e confondendola in un groviglio caotico di emozioni manierate.
Un compito insignificante e ripetitivo potrebbe invece mostrarsi più adatto a misurare le variabili inconsapevoli che intervengono nell’esecuzione.(Lombardo, 1979)

I Monocromi di Sergio Lombardo

Questo brano è tratto da un articolo pubblicato nel primo numero della Rivista di Psicologia dell’Arte, nel quale Sergio Lombardo parla dei suoi quadri monocromi realizzati tra il 1959 e il 1962 e rileva l’inevitabilità e l’esteticità dell’errore.
I Monocromi di Lombardo sono realizzati incollando su una tela un certo numero di quadrangoli di carta, o cartoncino, uguali. Il progetto prevedeva che i quadrangoli fossero posti tra loro a una distanza sempre uguale, in modo che intorno a ciascuno rimanesse visibile un bordo nel quale la superficie della tela non era coperta dalla carta.
In un primo tempo la differenza tra progetto ed esecuzione era dovuta prima di tutto all’ azione della colla che bagnando la tela la tirava in modo disuguale, modificando la posizione equidistante dei cartoncini.
In seguito l’artista, che inizialmente tentava di incollare con grande attenzione i cartoncini, decise di collocarli ”ad occhio”, aggiungendo così agli ”errori” dovuti all’azione della colla le proprie involontarie imprecisioni.
Una volta incollati i cartoncini l’intera superficie del quadro veniva dipinta con smalto lucido di un unico colore.
A volte era il gesto stesso del dipingere che veniva assunto nel suo valore meccanico e ridotto a un compito come quello di riempire, con un colore qualsiasi scelto dal campionario uno alla volta, l’intera serie degli
spazi uguali in cui era stata suddivisa la superficie iniziale. 1 (Lombardo, 1961).
Il colore veniva steso in maniera sciatta senza nessun autocompiacimento, l’esecuzione era quindi distante sia dalla pittura
accademica che dalla pittura – del bel gesto – informale.
Sostanzialmente Lombardo voleva fare una non-opera-d’arte, un lavoro che, pur mantenendo in modo letterale gli elementi che secondo la versione più accreditata dell’epoca costituiscono l’opera pittorica – forma, colore, composizione – ne escludesse programmaticamente quei fattori che, secondo un opinione diffusa, trasformano l’ opera pittorica in opera d’arte, ma sui quali può pesare il dubbio dell’ autenticità. I Monocromi vogliono essere infatti quadri senza partecipazione emotiva, senza fantasia, senza espressione, pongono quindi un problema di interpretazione.
Le immagini risultanti hanno però un grande fascino: è affascinante lo schema logico uniforme che costituisce l’opera, l’ossessiva ripetizione del modulo, ma anche la sua negazione, gli errori. Che si manifestano in una non uniforme stesura del colore o, come abbiamo detto, nella non perfetta posizione dei cartoncini, o ancora nella differente forma dei fogli di carta, come nel caso in cui i fogli incollati sulla tela siano stati strappati da un block notes. L’esecuzione produce un risultato non previsto, l’immagine risultante non è infatti oggettiva : piccole variazioni impediscono la monotonia programmata. Invenzioni estranee all’ intenzione contraddicono il progetto e sulla tela convivono ben visibili l’intenzione logica e la creazione involontaria.
Infine lo stesso rigoroso progetto conteneva elementi non previsti di fascino; scrive Lombardo: L’ossessiva ricerca di un’ arte oggettiva era un fatto paradossalmente lirico, ma questo era inconsapevole, perciò inevitabile come anche gli errori (Lombardo, 1979).
Lombardo perseguendo la via della rinuncia consapevole ad esprimersi, dimostra la possibilità e la validità di un espressione inconsapevole attraverso l’errore.
Gli errori rispetto a un compito prefissato sono, come i lapsus, comportamenti ispirati dall’inconscio che esprimono o soddisfano un’esigenza; non essendo censurati dalla volontà rappresentano, spesso più efficacemente del comportamento cosciente, i nostri pensieri.
Nei Monocromi possiamo considerare come errore anche il lirismo involontariamente presente nel progetto, che acquista valore in quanto atto inconsapevole, imprevisto, autentico e spontaneo.

Spontaneità ed errore

Se si assume come valore estetico la spontaneità l’artista deve scontrarsi con un paradosso: la necessità di progettare azioni involontarie, azioni che escludano la finzione, l’artificio della premeditazione e contemporaneamente rendano possibile una verifica e una eventuale confutazione. La profondità dell’ ispirazione potrà così essere giudicata da chiunque e non dichiarata per principio d‘ autorità da qualcuno.
A proposito della spontaneità scrive Watzlawick:Importanza concreta ha (…) un’intera classe di esortazioni comportamentali che hanno come comun denominatore il paradosso spesso citato del tipo ”Sii spontaneo!”. L’essenza di questa forma di paradosso consiste nel fatto che in una situazione interpersonale uno dei partner esige o presuppone da parte dell’altro un comportamento che per sua natura può verificarsi solo spontaneamente da se, e non certo quando viene richiesto: la richiesta rende impossibile ciò che è stato richiesto. Fra i paradossi del tipo ”Sii spontaneo!” quello clinicamente più importante è forse il divieto di essere triste e l’esortazione ad esso legata, possibile in molte varianti:
”Sii allegro!” Ma l’allegria non può essere forzata, esattamente come non è possibile dimenticare la tristezza su ordinazione. Il risultato è un tormentoso senso di disperazione, di non essere capace di combinare niente di giusto, in breve, di depressione .
Watzlawick più avanti indica quella che secondo lui è la terapia risolutiva: Se il tentativo di riuscire ad essere volutamente allegri genera depressione e lo sforzo di addormentarsi fa si che si rimanga svegli, ne consegue che l’eseguire intenzionalmente comportamenti apparentemente incontrollabili li deve necessariamente privare della loro spontaneità. Le cose stanno effettivamente così e perciò l’intervento consiste nella prescrizione del sintomo – e non nella tradizionale lotta ad esso (Watzlawick, 1977). Nel nostro caso se lo sforzo di essere spontanei e autentici genera azioni „artificiali“ l’intervento consiste nel tentativo di essere artificiali, nel progettare l’esecuzione nei minimi particolari, attenendosi meccanicamente al progetto, tentando di non esprimere nulla; anche il progetto deve rispondere a questa regola (Lombardo parla a questo proposito di astinenza espressiva [Lombardo, 1995]).
La soluzione è, come dice Lombardo, utilizzare un compito insignificante e ripetitivo. Gli errori, spontanei per definizione, esprimeranno ciò che la nostra volontà non è riuscita a censurare, ciò che è sfuggito al controllo cosciente e risponde a una necessità.

Esperimenti di Pittura Cieca

Nei miei primi lavori di Pittura Cieca tentai di realizzare un metodo che rendesse molto probabile la produzione di errori durante l’esecuzione, il compito che scelsi era quello di riempire uniformemente e con un unico colore, la superfice del quadro; il metodo per ”amplificare” gli errori era quello di realizzare questi lavori ad occhi bendati. Il compito era volutamente inespressivo e prevedeva anticipatamente anche il tempo di esecuzione dell’opera.
Questi primi lavori sono soprattutto una verifica del metodo e all’inizio sono realizzati esclusivamente da me, con tempi di esecuzione sempre più brevi.
Nell’eseguire il compito avevo la possibilità di orientarmi utilizzando il tatto ma nonostante questo numerosi erano gli spazi non campiti o ipercoperti.
Quello che attirò la mia attenzione fu la constatazione che, pur acquistando a poco a poco maggiore abilità, alcuni errori si ripetevano, erano riconoscibili, formavano uno stile, spontaneo e personalizzato.
A questo punto non ero più interessato ad essere l’unico esecutore del progetto, non ritenevo che le mie emozioni fossero a priori straordinarie, mentre eccezionali dal punto di vista emotivo erano le modalità di lavoro: mancando i consueti parametri di riferimento, a causa della deprivazione sensoriale, erano frequenti fenomeni di spaesamento spazio-temporale, gli errori di esecuzione che ne derivavano avevano delle costanti, mi facevano pensare che, in assenza di riferimenti certi, la produzione di errori era un modo involontario di reinterpretare lo spazio. Un interpretazione automatica che rispondeva a una logica interna.
Era sempre più interessante, alla luce di queste considerazioni, affidare ad altri l’esecuzione del progetto. In questo modo il metodo di lavoro si trasformava da sistema per produrre immagini a stimolo per coinvolgere altri sul piano della realtà.
Chi realizzava i miei progetti non doveva immedesimarsi nelle mie emozioni ma vivere le proprie. Il quadro era la documentazione di un evento. Le immagini che derivavano da questi esperimenti erano esteticamente interessanti perché comunicavano efficacemente l’autenticità delle emozioni espresse.
La riduzione al minimo degli elementi che costituivano l’opera ne rendeva agevole la lettura: conoscendo il metodo di lavoro adottato era possibile ripercorrere mentalmente la strada che aveva portato a quei risultati. Anche in assenza di controllo visivo da parte dell’esecutore
l’ immagine, che documentava l’evento, non era casuale.
Infatti quando chiedevo alla stessa persona di realizzare più volte lo stesso esperimento, le immagini non risultavano mai identiche ma avevano un ”carattere” riconoscibile. L’immagine era irripetibile e imprevedibile ma non era realizzata da un entità inconoscibile – il caso – ma espressione involontaria dell’esecutore.
Successivamente l’interesse per la perdita di orientamento si è in me accentuata, ho quindi deciso di modificare il compito in modo da rendere più difficile per l’esecutore basarsi sul tatto per orientarsi.
Nei primi lavori c’era da parte degli esecutori la tendenza a rimanere vicino a i bordi dove era più facile mantenere le coordinate spaziali. In queste zone si sovrapponevano spesso vari interventi, mentre le zone non coperte erano presenti generalmente nell’ area centrale .
Decisi quindi di allontanare la zona da riempire dai bordi del foglio, o della tela, e disegnai al centro del supporto un cerchio che aveva un’area poco superiore a un quarto dell’intera superficie.
Essendo il perimetro del cerchio solo disegnato l’esecutore, non potendo utilizzare il tatto per identificare le dimensioni della figura da coprire, doveva lavorare cercando di ricordare le dimensioni del cerchio. Il compito era quello di coprire completamente l’intera superficie del cerchio senza uscire dal perimetro dello stesso, la campitura, che nei primi lavori veniva realizzata a pennarello, nei lavori con i cerchi veniva realizzata con un bastoncino di grafite, più adatto a registrare le diversità di pressione esercitata. Molto spesso, come era prevedibile, l’esecutore veniva trascinato involontariamente a fare l’errore che gli era più congeniale .
Lo spazio del supporto era molto più vasto dell’area da coprire quindi spesso si verificava la tendenza a realizzare il disegno in un luogo diverso dal centro o le dimensioni del cerchio disegnato dall’esecutore erano diverse da quelle del cerchio-stimolo.
Tra le diversità di esecuzione – tra individui diversi – c’era anche la differenza di pressione usata nel tratto.
Sappiamo dalla grafologia che l’andamento e la forma della nostra scrittura non sono dovuti al caso, che elementi involontari intervengono nell’atto di scrivere e segnalano allo studioso differenze psicologiche da individuo a individuo.
Studi teorici di artisti e ricerche di psicologia proiettiva ci illuminano sulla componente simbolica della collocazione di un disegno dello spazio pittorico.
Sappiamo che la pressione esercitata corrisponde generalmente al grado di energia. Le dimensioni di un disegno indicano la maniera in cui il soggetto reagisce alla pressione ambientale, quindi se un disegno che indica un auto concezione è piccolo si può formulare l’ipotesi che l’individuo si sente inadeguato all’ambiente circostante. In individui destrimani la collocazione a sinistra di un disegno indica spesso introversione o coscienza di se, essendo questo per i destrimani il proprio lato. I test proiettivi, soprattutto quelli che prevedono la produzione di immagini da parte dei soggetti esaminati, come il test della pittura con le mani o quello del disegno della figura, tracciano ipotetiche topologie simboliche dello spazio.2
Queste nozioni si riferiscono a disegni realizzati da persone che lavorano avendo il controllo visivo durante l’esecuzione. La mia esperienza, cioè l’analisi dei disegni realizzati con il mio metodo, mi dimostra che anche ad occhi bendati l’individuo che realizza un disegno utilizza metodologie personalizzate che producono risultati riconoscibili.
L’ipotesi che io faccio è che la deprivazione sensoriale amplifichi le tendenze spontanee.
Vedendo i risultati di esperimenti di Pittura Cieca realizzati da persone di mia conoscenza sono rimasto colpito, in alcuni casi, da quella che a me sembra una evidente somiglianza tra la personalità dell’esecutore ed esecuzione realizzata.

Conclusione

I miei lavori di Pittura Cieca derivano direttamente dai i Monocromi di Lombardo, presentano con questi alcune analogie e sono basati sul collegamento, individuato da Lombardo, tra errore e spontaneità.
Nei Monocromi e negli Esperimenti di Pittura Cieca uguale è l’ approccio scettico che riduce la pittura a il gesto del dipingere assunto nel suo valore meccanico e ridotto a un compito come quello di riempire, con un’ unico colore, una superficie definita a priori.
La presenza simultanea sulla tela dell’intenzione logica e della creazione involontaria è presente in entrambi i lavori.
L’originalità del mio lavoro è la tecnica utilizzata per essere conseguente con ciò che Lombardo aveva scoperto: l’esteticità e l’inevitabilità dell’ errore.3
Se l’ arte si manifesta come errore, quindi contro l’ intenzione cosciente dell’ autore, il problema non è più quello di produrla o di crearla, ma quello di trovare una tecnica capace di amplificarla, di metterla in evidenza(Lombardo, 1979).

Note
1 Dichiarazione di Sergio Lombardo risalente al 1961 e riportata in: N. Ponente, Sergio Lombardo, Multipla Ed. Milano, 1974, p.5
2 Interessante è però l’ipotesi formulata da Paul Watzlawick sulla simbologia dello spazio. Watzlavick teorizza la possibilità di un rapporto antagonista tra i due emisferi cerebrali. Da ciò deriverebbe la corrispondenza, più volte riscontrata, tra lato sinistro e significati negativi. Nel suo Il linguaggio del cambiamento, Watzlavick cita un’ esperimento realizzato da G. William Domhoff con 158 studenti che erano invitati ad esprimersi, tramite il Differenziale Semantico, sull’ immagine che loro avevano dei concetti „“destra““ e „“sinistra““.
„“Destra““ fu definito come: buono, chiaro, santo, maschile, puro, giorno, est, diritto, sincero, eterosessuale, forte, normale, alto, bello, bianco, giusto e vita, dunque in modo quasi interamente – e convenzionalmente – „positivo“. Mentre „“sinistra““ era accomunata ai significati „opposti“: cattivo, scuro, profano, femminile, impuro, notte, ovest, piegato, fiacco, omosessuale, debole, enigmatico, basso, brutto, nero, ingiusto e morte. Watzlawick spiega questo risultato dicendo che questo metodo mette in gioco la denominazione, la definizione e l’associazione, quindi mette in causa l’emisfero cerebrale sinistro predominante per il linguaggio e il discorso, che come sappiamo corrisponde all’ emicampo visivo destro, il risultato sarebbe quindi un giudizio „“di parte““ (Watzlawick 1977).
Michael S. Gazzaniga (1998) ha ipotizzato che la lateralizzazione è stata la via d’uscita, nel corso dell’evoluzione, per guadagnare nuove facoltà senza perdere quelle vecchie. Cioè che l’insorgenza di nuove capacità – come il linguaggio, o nuovi meccanismi interpretativi della realtà – abbiano provocato una competizione per la supremazia all’interno dello spazio corticale e la specializzazione dei due emisferi.
I quali, secondo Watzlawick, gareggiano nell’ interpretazione della realtà.
Quindi a seconda del tipo di segnali in ingresso (stimolo), a seconda del tipo di competenze richieste, uno dei due emisferi diventa dominante e inibisce l’altro nella supremazia delle vie efferenti (risposta).

3 Gli Esperimenti di Pittura Cieca con Cerchi sono stati esposti per la prima volta nel 1984 presso il Centro Studi Jartrakor. Negli esperimenti successivi ho utilizzato forme asimmetriche realizzate con metodi aleatori, per indagare sull’aspetto creativo dell’errore di memoria. Ho realizzato lavori servendomi del tachistoscopio e in altri lavori ho utilizzato il laser su carta fotografica. In tutti questi lavori, anche quelli eseguiti ad occhi aperti, l’esecutore non può servirsi della vista per correggere i propri errori.
In questa sede ho deciso di soffermarmi soprattutto sui lavori con in cerchi perché ritengo che la loro importanza sia stata sottovalutata anche dai pochi che hanno potuto vederli.
Io stesso fino ad oggi mi sono accontentato del forte impatto visivo che quei quadri, cioè le documentazioni di quegli eventi, offrivano.
Oggi ritengo invece che quelle immagini possano essere utilizzate attivamente come valido mezzo per indagare sugli effetti della lateralizzazione dell’ immagine e sulla simbologia dello spazio.

Bibliografia
EDWIN ABT L. & BELLAK L., Projective Psychology: clinical Approaches to the Total Personality,Trad. it.: Psicologia Proiettiva, Longanesi, Milano 1967
GAZZANIGA MICHAEL S. (1998) Funzioni divise per gli emisferi cerebrali, in „“Le Scienze““ , n361 – Settembre 1998, pp.42-47
LOMBARDO S. (1979), Immagini indotte in stato di trance ipnotica, in „“Rivista di Psicologia dell’Arte““, I, n.1, pp. 45-60
LOMBARDO S. (1982), Sulla spontaneità, in „“Rivista di Psicologia dell’Arte““, IV, nn. 6/7,pp. 141-162
LOMBARDO S. (1982), Piero Manzoni e la cultura spettacolo. Confutazione di quattro giudizi banali, in „“Rivista di Psicologia dell’Arte““, Nuova serie, XVI, n.6, p. 12
MIROLLA M.(1994), I Monocromi di Sergio Lombardo, in „“Rivista di Psicologia dell’Arte““, Nuova Serie, XV, nn. 3/4/5, pp. 87-95
WATZLAWICK P. (1977), Die Möglichkeit des Andersseins, Verlag Hans Huber, Bern. Trad. it., Il linguaggio del cambiamento, Feltrinelli, Milano 1980, pp. 96-98 e nota n. 5 a pag. 41